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Per una riforma liberale

By admin on 26/07/2011 in L'editoriale
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Uscire dalla crisi subito oppure aspettare  l’arrivo dei marziani?

Sono recentemente successi molti fatti e ci sono state sdoganate alternativamente notizie di speranza ad altre da suicidio.

Una buona notizia è che trascorsi ormai quasi vent’anni dalla firma del trattato di Maastricht  l’Italia ha finalmente un progetto per rientrare dall’eccessivo debito pubblico,il 120% del Pil, verso il livello previsto del  60%.

Una  notizia cattiva invece   è che i fondamentali dell’economia italiana, in particolare il tasso di crescita stagnante da ormai più di dieci anni (attualmente 1,1% del Pil) che deriva dalla caduta senza precedenti della produttività, rendono tale progetto  irrealizzabile.

Che una correzione di tale entità possa avvenire con il ricorso ad una patrimoniale oppure  all’inasprimento fiscale è fuori discussione. La pressione fiscale in Italia  è già a livelli da record fra i Paesi occidentali, e questa circostanza  spiega in gran parte le ragioni della caduta degli investimenti e della produttività nel nostro Paese: e poi sarebbe la Rivoluzione.

Non è quindi questa  la strada percorribile per l’azzeramento del deficit fiscale.

L’ipotesi più realizzabile  è rappresentata dalla ripresa della politica delle privatizzazioni avviata dopo Maastricht riducendo di un quarto il debito pubblico, ma poi interrotta. Il patrimonio delle pubbliche amministrazioni in termini di imprese pubbliche e quello immobiliare, è rimasto in Italia a livelli inaccettabili.

In passato i  benefici delle privatizzazioni  sono stati molto rilevanti: sia per la riduzione del debito pubblico sceso dal 125% del Pil nel 1994 al 108% nel 2002 sia per le liberalizzazioni rese possibili dalla fine del monopolio pubblico (energia, telecomunicazioni); sia perché le imprese privatizzate in tutto o in parte hanno cessato di gravare sulle finanze pubbliche per le necessità di ricapitalizzazione per perdite e altri fabbisogni.

Un mercato non è davvero tale se alcune aziende possono costantemente contare sugli aiuti pubblici e altre invece , se vanno male, chiudono.

Il valore delle quote delle imprese di proprietà dello Stato è pari a circa 120 miliardi di euro, a cui però si dovrebbero aggiungere le imprese che non sono sul mercato (Ferrovie, Poste, Cassa DDPP, ANAS, RAI) il cui valore – pure difficilmente stimabile – non dovrebbe risultare inferiore ad ulteriori 100 miliardi. L’elenco dovrebbe inoltre comprendere centinaia di  imprese controllate da enti locali, alcune delle quali hanno patrimoni netti e valori  di mercato molto consistenti.

Poi c’è il patrimonio immobiliare che rappresenta una riserva patrimoniale delle pubbliche amministrazioni il cui valore è circa più di  un terzo del debito pubblico italiano.

Tutto questo però deve passare attraverso una riforma del sistema pensionistico tale da consentire che tali privatizzazioni non vadano a beneficio dei soliti pochi noti, ma invece favorisca lo sviluppo di public companies, e dei fondi pensione con un azionariato diffuso e popolare.

Di pari passo urge uno Stato più snello e meno impositore ma piuttosto  facilitatore di innovazione e modernità.

Servono accessi diretti alle professioni attraverso l’abolizione di albi e ordini professionali utili a tutelare intere caste che, in nome di un finto interesse dei cittadini, non vogliono esporsi ad un confronto con il mercato.

In Italia ci sono 152.000 avvocati, 118.000 commercialisti,110.000 giornalisti e pubblicisti.

Nessuna attività o  libera professione deve essere contingentata, ma solo regolata dalle capacità professionali dei singoli di stare sul mercato; dai notai ai tassisti, dagli avvocati ai farmacisti,dai giornalisti agli agenti immobiliari.

Siamo ancora un paese feudale: l’abolizione di ogni ostacolo al lavoro deve essere il principio cardine di una vera riforma in senso liberale.

Favorire i talenti, agevolare l’incontro tra domanda e offerta nella tutela dei diritti dei singoli: questo deve essere l’obiettivo.

Da chi deve partire l’iniziativa?

Unicamente da chi ci governa e dal Parlamento che fa le leggi: temo però che i loro interessi non coincidano con quelli del paese.

Ma devono dare l’esempio e soprattutto partendo dai loro propri interessi.

Un taglio netto.

Dimezzamento dei loro stipendi e del numero dei parlamentari, riduzione del numero delle province  a cominciare da quelle dei capoluoghi di regione con l’istituzione delle aree metropolitane, la riforma delle autonomie locali con l’accorpamento da subito, e non aspettando l’era di Star Trek, di comuni e circoscrizioni e la liquidazione delle comunità montane.

Un politico deve fare come un insegnante, che se vuole avere il rispetto della propria classe, deve dare il buon esempio, altrimenti gli tirano le palle di carta.

Il politico che in futuro non farà così non potrà godere né di stima né di autorevolezza, con il risultato che invece delle palle di carta gli tireranno le monetine, come successe a suo tempo a qualcuno a Roma davanti all’Hotel Raphael.

Luglio 2011.

Massimo Guerrini

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